Politica. L’EVERSIONE SINISTRA NEI SILENZI E NELLE OMISSIONI DEL PARTITO DEMOCRATICO

Il Partito Democratico ha abbattuto la Quercia, rimosso la S di sinistra e lasciato seccare la Margherita, sui cui petali ancora si legge «se candidi Rutelli contro Berlusconi sei idiota». Concepito per accogliere i nipoti di Berlinguer e Moro, ha chiuso la porta a Bersani, Prodi e D’Alema. Alle ultime politiche è stato divelto da grillini e leghisti, cui sono andati i voti dei militanti del centrosinistra: dai pensionati agli insegnanti, dalle fabbriche agli uffici pubblici.

Ora il Matteo buono è quello verde: come i marziani dei fumetti. Non più il rosso coatto di Rignano sull’Arno, che voleva cacciare i vecchi dal tempio, urlando «rottamiamoli», alla Chiambretti; e che per rovesciare il banco del cambiavalute, ha sbattuto l’alluce contro la scrivania di Banca Etruria e Banca delle Marche, a piedi nudi. Gli italiani non l’hanno presa bene. Non per il livido e l’unghia nera fascista, ma per la sensazione di averci rimesso in sicurezza e risparmi.

Matteo Renzi è rimasto solo, come altri prima di lui. Alcuni avrebbero meritato maggiore riconoscenza, altri neppure la citazione. Tutti se ne sono fatti una ragione, non lui. In principio, il grigio Occhetto perse il Braccio di ferro con Berlusconi. L’Italia non poteva stare dietro a uno che vestiva alla Standa e bisbigliava preoccupazioni, senza alcuna capacità seduttiva nonostante si fosse confrontato con la caduta del Muro e Tangentopoli. Gli eskimo si arresero ai paletò.

Fu l’inizio della fine, soprattutto di una filiera rappresentativa che, tenendo insieme i territori, aveva garantito condivisione responsabile e selezione della classe dirigente. Matteo Renzi contro i «Vaffa day» propone la rottamazione, dei suoi. Ammicca, vince e convince. Come solo Berlusconi prima di lui. Fino a quando non deve fare i conti con Salvini, Di Maio e Di Battista. Li insegue, come altri, prima, con il Cavaliere, subendo l’onta del tracollo, come i predecessori.

Dal berlusconismo con tinte populiste al populismo con tinte berlusconiane è stato un batter di ciglia. Come quello di Rutelli che tentava di parlare e muoversi alla Silvio. In un quarto di secolo, la sinistra si è arresa due volte, schiacciata dalla propria presunta superiorità intellettuale, oltre che dai numeri delle forze politiche alternative. È inciampata nella convinzione di persuadere meglio dei berlusconiani e dei grillini: la caduta, rovinosa, potrebbe essere letale.

La sinistra si è esercitata su spartiti molto meno rossi di quelli sciacquati nell’Arno. Ha proposto Ingroia, De Magistris, Marino. Ha immaginato di candidare Flavia Vento alle europee contro le sorelle De Vivo: tutte poi cancellate dall’allarme lanciato da Veronica Lario. Ha preferito il giovane Renzi al vecchio Bersani; la mascella di Grasso ai baffetti di D’Alema. Ha seminato e raccolto quanto di peggio potesse, preoccupandosi esclusivamente delle consultazioni elettorali.

Il catalogo degli errori è vasto: ignorare la voglia di partecipazione di chi ha preferito i grillini; proclamare la ripresa economica, quando gli italiani hanno la percezione di non riuscire a mettere insieme pranzo e cena; confondere un successo elettorale con la bontà di una proposta politica; esibire le truppe alla Leopolda e tollerare i circoli chiusi; raccontare di aver perso le elezioni ed essere stati relegati all’opposizione, consegnando il Paese a Di Maio e Salvini.

E ancora: non insistere nel dare attuazione, con il DDL Finocchiaro, all’art. 49 della Costituzione, per evitare la riorganizzazione dei partiti; tollerare gli eccessi e le contaminazioni delle cooperative di servizi, nel meridione, a discapito della certezza del posto di lavoro e di un salario dignitoso; dare l’impressione di salvare le banche e non i risparmiatori; riflettere allo specchio e non a una finestra sul cortile; inseguire l’uomo forte e non un progetto condiviso.

Occorre ripartire, rottamando steccati, superando faide e diaspore, scuotendo le coscienze, quelle che ancora vibrano al ricordo di Enrico Berlinguer. Padova, piazza della Frutta, 7 giugno 1984: «non è possibile salvaguardare le istituzioni democratiche se si escludono i comunisti. Questo perché il Partito Comunista ha assunto e difeso una funzione di garante democratico». Sono trascorsi trentaquattro anni, la piazza rossa ormai è incazzata nera, come la frutta andata a male.

Il Segretario alza il tiro e lo sguardo, senza pregiudizi. «Chi voglia escludere il Partito Comunista, chi voglia governare contro questo partito, porta i risultati di dissesto e di caos che sono sotto gli occhi di tutti. Questo è il motivo principale per cui riteniamo di poter chiedere il voto anche ai socialisti, anche ai cattolici democratici; a quanti sentono che siamo arrivati a un momento in cui tornano in gioco le questioni essenziali della libertà e della democrazia».

Rivendica, denuncia: «I comunisti hanno dimostrato di sapersi battere per garantire le libertà e i diritti democratici non solo per se stessi, in quanto opposizione, ma anche per chi è avversario dei comunisti! Le vecchie forze del tradizionale notabilato democristiano non sono più capaci di offrire punti di riferimento, né di suscitare energie, ripiegate, come sono, su se stesse, in particolare dopo la sconfitta subita nel giugno dell’anno scorso dalla Democrazia Cristiana».

Apre, ancora: «Nel mondo cattolico si sviluppano ed esprimono sensitività e iniziative che si manifestano come popolo autonomo rispetto alla vecchia area democristiana; a queste forze della cultura, della scienza, del lavoro, del mondo giovanile, i comunisti indicano una prospettiva di pace, in Europa e nel mondo, di risanamento e di trasformazione del Paese, di rinnovamento della politica e dell’organizzazione della società, in una salda garanzia di democrazia e di libertà».

Lancia la mobilitazione: «Vi invito a impegnarvi, con lo slancio che i comunisti hanno dimostrato nei momenti cruciali. Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte, per ciò che siamo stati e siamo; è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà»!

Occorre ripartire da Berlinguer. Per tendere la mano a chi ha preferito un appuntamento politico al buio. Una mano pronta a stringerne altre; che rechi un impegno responsabile e condiviso; che varchi il perimetro dell’altra parte politica e indichi una via di uscita alle sensibilità che vi si sono rifugiate; che non si stringa al collo di chi dissente. Perché, nella notte della Repubblica, i selfie grillini fanno luce sugli errori della sinistra ma non illuminano l’orizzonte. 

Commenti

  1. Richiamare alla lotta i "comunisti", quelli che rimangono, è come organizzare una seduta spiritica.
    Sono stato amico dei comunisti dai tempi del muro di Berlino, anche se non condividevo i loro applausi verso i vopo che sparavano sui loro giovani connazionali mentre cercavano di scavalcare i muri.
    Ho condiviso la svolta di Berlinguer, che secondo me portava l'orologio prima della scissione di Livorno.
    E, dopo la terribile deviazione di Craxi ho visto in Berlinguer il continuatore dell'idea socialista.
    Io la smetterei di parlare di comunismo, suscita ricordi troppo funesti a livello europeo, parlerei di socialismo.

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