POLITICA. L'EBBREZZA DEL PREMIERATO DELL'UOMO CHE VOLLE FARSI PRIMO MINISTRO


Andar per tini, citando Pertini

L’immagine di Sandro Pertini fa capolino sui cartelloni pubblicitari delle scuole private e nelle dichiarazioni di Luigi Di Maio. Pertini è il Presidente del «fate presto» e del mondiale spagnolo. È il partigiano, l’antifascista, il socialista, di cui Di Maio ha sentito parlare il padre missino. È il Presidente del primo governo a guida repubblicana, nel 1981. Il Partito dell’edera, con il 3% dei voti, ottenne un magro bottino: 16 seggi alla Camera su 630; 6 al Senato su 315.

Spadolini varcò la soglia di Palazzo Chigi: tra pallottole vaganti, logge massoniche e crisi internazionali; non proprio una passeggiata tra fotografi e telecamere. Andrea Manzella, nel decennale della morte, ricordò quei giorni, il politico e la sua lezione. «Per la prima volta, la Presidenza del Consiglio non era del partito principale della coalizione. Era il riconoscimento della "diversità" istituzionale e politica del Primo Ministro rispetto ai partiti della coalizione».

«Il collante coalizionale non è più visto nell’egemonia del partito più numeroso ma si sposta sui poteri istituzionali del Presidente. Il Presidente del Consiglio non esprime una forza partitica propria, ma semplicemente la forza del suo ruolo. L'innovazione non è di poco momento. In un sistema politico abituato a contare sulla forza e sulle regole della partitocrazia, si profila un esperimento di "regime del primo ministro", esclusivamente fondato su elementi istituzionali».

La “novità” è annunciata alla Camera, l'11 luglio 1981: «Rivendico l'autonomia istituzionale del Governo nella formulazione o redazione finale delle proposte da presentare al Parlamento. Il Governo della Repubblica non sarà mai un Governo dei partiti e neppure delle delegazioni dei partiti». Spadolini illustra il nuovo corso replicando a Longo (Psdi). Luigi Di Maio li ha visti in Fantozzi subisce ancora: si rivolgono al ragioniere alla vigilia di una consultazione elettorale.

Fantozzi si prepara al voto. Si informa, per decidere con cognizione di causa, barricato in casa, «da mattina a notte fonda», tra pile di giornali e tribune politiche. Redarguisce e allontana la moglie che lo esorta a mangiare: «Pina, se io sbaglio il voto, questa volta va a finire che non mangiamo per una decina d’anni». Sballottato dalle «campane discordanti» va nel pallone e ha allucinazioni audio visive. Vede i politici rivolgergli la parola dal televisore e gli risponde.

Spadolini si mostra opulento e lo invita a fare sacrifici: «Caro Fantozzi, come può vedere, non sono stoicamente portato al digiuno, ma sono d’accordo con l’onorevole Pannella, lei è stoicamente condannato a digiunare. Limitate i consumi». Il ragioniere, incredulo: «Ancora di più»? Spadolini: «Certo, vada a farsi praticare altri quattro o cinque buchi sulla cintura, mentre io vado nella mia bella villa sopra Firenze e mi faccio un bel cotolettone impanato, con patate fritte». 

Longo, invece, lo rassicura sulla pensione: «Vede ragioniere se lei appoggia il mio partito le prometto di risolvere il problema della pensione». Fantozzi ringrazia, Longo precisa: «Parlo della mia, mica della sua. Ho già una certa età e ho una madre a carico». Fantozzi, interdetto, chiede spiegazioni: «Scusi, la sua mamma vuole che me la accolli io»? Longo non ci sta: «No, no, no Fantozzi, la mamma non si tocca. Mi guardi negli occhi». Fantozzi, inerme: «Non mi guardi così».

Di Maio è stato segnato dalla finzione cinematografica. Lo ha determinato a combattere sprechi e vitalizi parlamentari, contribuendo a far maturare in lui una particolare diffidenza verso i fiorentini. Nel 1983 – anno di uscita del film – il capo politico dei grillini non era ancora nato, ma Paolo Villaggio, Neri Parenti e gli altri sceneggiatori di Fantozzi ne stavano già immaginando la formazione politica, sbeffeggiando e delegittimando – a modo loro – i politici del tempo.

Erano gli anni dei fascisti, dei comunisti, dei democristiani, dei repubblicani, dei liberali, dei socialdemocratici, dei democratici proletari; dei radicali con le loro lotte per i diritti civili; dell’esperimento del “regime del primo ministro”, in un laboratorio politico istituzionale attrezzato per garantire la sicurezza e la tenuta del sistema: concepito e proposto dall’uomo dell’edera, pianta appiccicosa che però non destava alcuna preoccupazione nei palazzi del potere.

Oltre c’era Pertini, con la storia di una vita elevata a lezione e monito. Il Pertini citato oggi per far breccia nel cuore degli italiani; esposto nelle bacheche dei social e nello studio di Floris. L’uomo il cui insegnamento è attuale e necessario, perché il fascismo è ancora sull’uscio: strisciante, apparentemente innocuo, ma pronto a contaminare le reazioni emotive, a diffondersi come un virus letale. A nulla vale negarlo a parole, quando lo si perpetua nei comportamenti.

Il fascismo si nutre di paura e rabbia. Alle soluzioni preferisce i proclami, alla rappresentanza la rappresentazione. Affermare il superamento delle ideologie, non lo cancella, ne copre le tracce: chi si candida alla guida del Paese, sull’emergenza ordine pubblico, deve scegliere tra Lega e Pd; e deve una risposta chiara, di destra o sinistra, ai naufraghi, come fecero Spadolini e Pertini per i missili di Comiso: perché siamo ancora nel Mediterraneo, crocevia e fossa comune.

Spadolini, che forse apprezzava le patatine, intervenendo alla Camera, nel luglio 1981, traccia il perimetro delle prerogative e responsabilità del premier: «Quando si forma il Governo, si esce dall'art. 49 della Costituzione e si entra nell'art. 94, cioè in un'area istituzionale più vasta, perché il Governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani».

Spadolini non c’è più. Anche Pertini è andato; ci ha lasciato una foto sulla sagoma di Luigi Di Maio: una reliquia avara di miracoli, a differenza del ritratto sui manifesti delle scuole private. Ora più che mai, si afferma il bisogno di rivolgerci a lui: per riscoprirne i valori, non il fumo della pipa. Ciascuno con i propri limiti e le proprie virtù; consapevoli che un conto è ispirarsi al Presidente più amato dagli italiani, altro è inseguire l’intuizione andando per tini.

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