PROLOGO BUFFO AL COMMENTO SCONVENIENTE SULLE DISAVVENTURE DI CHI SOGNA UN’OPERA MONUMENTALE E SI RITROVA CON UN ORINALE

Gli schizzi sono fastidiosi. Fango, saliva, pioggia, inchiostro e sugo di pomodoro, quando raggiungono il bersaglio, ne compromettono il candore. Un conto è essere colto di sorpresa da un acquazzone, altro è uno sputo nell’occhio. La macchia rossa sulla camicia, il 24 giugno, celebra l’abbondanza e la devozione al Santo. Il solco lasciato dagli smottamenti sulle pareti perimetrali di un’area cantierizzata è la disgrazia che si abbatte sull’imprenditore parsimonioso e ingenuo.

Fango, saliva, pioggia e inchiostro vanno a braccetto con gli imprevisti. L’ordine con cui si vedono in giro è più o meno questo: pioggia copiosa, fango in colata e imprevisti annunciati. La saliva ruba la scena a tutti. Si propone mentre gocciola dai baffi di chi, orgoglioso, urla «lo avevo detto»; e quando amici e parenti oltraggiano gli occhi di chi legge il proprio nome scritto con l’inchiostro delle Procure e di cronisti tirapiedi. L’immagine non è gradevole. Ma quest’è.

Da Trieste in giù, cambiano gli interpreti, non la canzone. Il male comune è che si pretende di entrare al San Carlo pagando il biglietto per l’Opera dei pupi, dopo avere svuotato il portafoglio al Gambrinus; quando, per dirla come in Miseria e Nobiltà, «nun si tengono manco li soldi per pagare lu scrivano presente». Senza dimenticare che nel Belpaese, fondato sulla Carta costituzionale ma tenuto su dalle cambiali, in troppi scrivono per leggersi e pochi leggono per scrivere.

È opinione diffusa che il problema sia il ladrocinio: degli imprenditori che si fanno prenditori e dei rappresentanti dello Stato che si arricchiscono a discapito della sicurezza. La stampa non aiuta: semina ansia e raccoglie pregiudizi. Il risultato è che ciascuno pensa male del prossimo; tutti gridano alla corruzione e alle infiltrazioni della malavita; i sindaci, per non passare un guaio, non firmano; e per evitare il blocco delle attività, si cancellano controlli e reati.

I giornalisti fanno il loro, grazie al cielo. Così pure i magistrati; anche se lasciano un poco a desiderare quando si lanciano nella stesura dei comunicati stampa: alcuni procuratori, lontano dalle indagini, hanno un pessimo rapporto con la scrittura. Danno l’impressione di preferire la creatività alla chiarezza; e non va bene. Chi cerca certezze e rassicurazioni si ritrova con mille dubbi, tanta preoccupazione e la sensazione, non bella, di avere difficoltà nel comprendere.

Politici, amministratori e funzionari pubblici, sempre da Trieste in giù, fanno di tutto per alimentare i pettegolezzi. Con il ritorno della canzone napoletana, si può ben dire che diversi ricordano il protagonista di Bellavista, capolavoro di Francesco Fiore, musicato da Giovanni Donnarumma, nel 1939: «Venitemi a trovare, ho appena dieci figli e basta. Sono parte del mio cuore ma sono troppo prepotenti. Un regalino a testa che vi costa? Veniteli a trovare questi camorristi».

Se il quadro nazionale è sconfortante, il locale non entusiasma. Anche perché invidia e gelosia ci mettono il carico da novanta. Senza contare che, scendendo di livello, precipita pure la qualità di uomini e opere, con l’inevitabile aumento dei danni. Si passa dall’esortazione, in campagna elettorale, alle persone perbene, alla pratica del perbenismo e della dabbenaggine durante la consiliatura. Con una naturalezza tale da indurre a pensare che sia tutta colpa degli elettori.

Una cosa è mettere una croce, altra è portarla per cinque anni. Senza l’allontanamento per manifesta inadeguatezza, non resta che stringere le natiche. E non è detto che basti. Il dramma è che se sindaci, assessori e consiglieri fanno una fesseria, tutti pensano che la politica sia una schifezza e bisogna starne alla larga; se un dipendente comunale va a far la spesa dopo aver timbrato, la pubblica amministrazione è percepita e rappresentata come un’associazione a delinquere.

C’è chi ci mette la faccia e chi ci rimette le chiappe. I primi se ne vantano, trascurando la possibilità di finire su una foto segnaletica. I secondi se ne dolgono e preferiscono non agitarsi. C’è poi chi ha la faccia come il culo e dopo avere causato il danno, si arrabbia puntando l’indice contro qualcun altro, accusandolo del misfatto: dei tre tipi, è quello che ha maggior fortuna. Soprattutto quando la gente è incazzata e non ha tempo per farsi domande o cercare risposte.

Se alla esecuzione dei progetti si preferisce la consultazione dei tarocchi e la fama dei tecnici cede il passo alla fame degli investitori, non resta che affidarsi al cielo e sperare che non passino piccioni incontinenti. La posa della prima pietra dà il via alle critiche. Ovunque. Federico Salvatore, in Se io fossi San Gennaro, ne canta quattro al costruttore del Centro direzionale: «Ci può solo pisciare, perché ha fatto un orinale», come tanti altri, che si vedono in giro.

Meritano una citazione anche i poveri diavoli convinti dai politici a lanciarsi in operazioni offerte come remunerative e rivelatesi un fiasco. Oltre a rimetterci salute e denaro, sono lacerati dall’opinione pubblica, perché ritenuti, ingiustamente, terminali di organizzazioni interessate a investire i proventi di attività illecite. C’è chi si ritrova a ringraziare la magistratura: in particolari condizioni, il sequestro di un’area di cantiere aiuta a tenere la barca a galla.

Federico Salvatore si ispirò e rese omaggio all’immenso Giorgio Gaber di Io se fossi Dio, che preferiva «la più grande disgrazia» al «cadere nelle mani della giustizia»; e che bacchettava i magistrati, «un tempo così schivi e riservati; ora con la smania di essere popolari, come calciatori». Osando con il Se io fossi uno con l’aureola, viene voglia di scrivere il testo di Se io fossi San Giovanni, considerato quel che accade nelle città di cui è patrono, a partire da Firenze.

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