IL REDDITO DI CITTADINANZA A FEBBRAIO HA COMPIUTO 19 ANNI. LO INTRODUSSE BASSOLINO NEL 2004. ORA È IL PEGGIORE INCUBO DEI POLITICI

Il “Reddito di cittadinanza” è nato in Campania, molto prima che Luigi Di Maio proclamasse la “abolizione della povertà” dal balcone di Palazzo Chigi. Ci pensò Antonio Bassolino, nel 2004, allora ai vertici della Giunta regionale di Palazzo S. Lucia e figura di primo piano dei Democratici di Sinistra. Con la legge n. 2 del 19 febbraio. Fu abrogata nel 2010, dalla n. 16 del 7 dicembre: il presidente della Regione era Stefano Caldoro, socialista e poi fedelissimo del Cavaliere.

Il nome preciso del provvedimento era “Istituzione in via sperimentale del reddito di cittadinanza”. Profilo basso, cautela e discrezione. Fu pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Campania il 23 febbraio. Sarà perché i Chigi erano banchieri e Santa Lucia è la protettrice dei ciechi, fatto sta che Bassolino, nel 2004, pensò a chi non aveva neanche gli occhi per piangere mentre Di Maio, nel 2019, si è dedicato alle carte di credito, scatenando una guerra tra poveri.

Peppino Impastato segnò la distanza tra sé e la mafia contando cento passi. Di Maio, se avesse percorso la strada dalla sua cameretta all’Ufficio di Collocamento di Pomigliano d’Arco, preferendo il navigatore al “navigator”, si sarebbe reso conto delle condizioni della struttura e dell’impossibilità di mettere in atto ciò che sognava. Evitando che le famiglie italiane si urlassero contro, l’un l’altra, che «i percettori del reddito di cittadinanza sono una montagna di merda».

Se Bassolino mise mano alle possibilità che gli offriva la 328 del 2000, intitolata “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, segnando il percorso anche agli amministratori del Nord – tra i primi il Comune di Rovigo e la regione Veneto – e fissando in una norma l’introduzione del Reddito di Cittadinanza, Di Maio lo ha preso nelle PAQ, le “Pulsanti Ambizioni Qualunquiste” del programma grillino, rivendicandone pure la paternità.

L’acronimo PAQ, a dire il vero, sta per “Proviamo anche questo”. È un’intuizione di Beppe Severgnini, utile a spiegare il flusso di voti che, da un’elezione all’altra, premia, in misura rilevante, proposte politiche molto diverse tra loro. Di Maio ne è stato vittima. Il Reddito di Cittadinanza ha rischiato, fino a quando le forze in campo non hanno compreso che la lotta alla povertà è irrinunciabile e improcrastinabile, distinguendosi sul catalogo delle correzioni necessarie.

Bassolino e altri dopo di lui si posero il problema di chi non riusciva a mettere insieme pranzo e cena. Di Maio è andato oltre, scegliendo tra i poveri e preferendo quelli che non avevano determinati precedenti penali. Condannando chi ha truffato lo Stato o è stato mafioso o camorrista e “si puzza dalla santissima fame”, per dirla con Renzo Arbore – veramente, non a chiacchiere – a elemosinare o a delinquere ancora per sopravvivere.

La versione 2019 è diversa dalla 2004. È figlia dell’approssimazione, della voglia di strafare e del desiderio di urlare al mondo “l’ho fatto io e grazie a me da oggi nulla sarà come prima”. Non tanto per gli importi erogati – prima erano € 350 – quanto per la finalità: nel 2004 l’obiettivo era l’inclusione sociale e l’erogazione del necessario; nel 2019 si è pensato ad una somma da assicurare a chi non ha ancora un lavoro, nell’attesa che ne trovi uno: la povertà c’entra poco o niente.

La politica ci ha messo lo zampino in campagna elettorale. Cavalcando il malumore di chi osserva i percettori usare il reddito per acquistare i Gratta e vinci o consumare colazioni, aperitivi e litri di birra, magari durante la pausa da lavoro, evidentemente nero. Tra le anomalie non emerse ma sotto gli occhi di tutti non può tacersi l’istituzionalizzazione dell’usura, con liquidità fornita dai commercianti con commissioni del 30%: scaricano 100 per la finta spesa e danno 70.

Di Maio ha pensato una cosa, ne ha scritta un’altra e ne ha annunciata un’altra ancora. Intanto, il Paese è in una crisi senza precedenti e la politica litiga divisa tra chi sostiene una misura che, in fondo, non ritiene adeguata e coloro che temono di affermare di volerla superare. Mentre i contribuenti sono irretiti da ciò che percepiscono come uno spreco e una truffa, destra, sinistra e centro sono stretti tra l’incudine e il martello, con poche idee e ancor meno coraggio.

Di Maio e Bassolino sono stati Ministri del Lavoro. Uno con Conte, Salvini, Bonafede e Toninelli, l’altro con D’Alema, Bersani, Livia Turco, Amato e Mattarella. Conte muoveva i primi passi, tenuto per mano da Di Maio e Salvini; poi ha imparato a camminare da solo e a correre, più degli altri due. Bassolino si dimise dopo l’omicidio D’Antona ma fece in tempo a ridurre di poche ore l’orario settimanale di lavoro, degli altri. Di Maio, bocciato dalle urne, ha ridotto il proprio.

La lotta alla povertà è una cosa seria. Come le politiche del lavoro. Bassolino lo sapeva bene. Stenta a dirlo, perché le parole non reggono il passo dei pensieri. Di Maio lo ha capito tardi; dopo averne parlato a vanvera, perché i pensieri non riescono a stare dietro alle parole. Da Meloni a Letta, passando per Salvini, Berlusconi, Calenda, Renzi e Conte, non sanno a chi santo votarsi. Draghi esordì dichiarando che era il momento di mettere soldi nelle tasche degli italiani.

Bassolino non si inventò nulla: lesse e applicò una legge che stava lì da qualche anno, cogliendone le opportunità. Si rivolse ai servizi sociali territoriali e li investì di compiti e responsabilità: dall’istruttoria ai controlli. Pensò alla formazione, alla scolarizzazione e all’inclusione sociale: elevandoli ad argini per contenere e ridurre la povertà. Di Maio ha coinvolto l’Inps, l’Agenzia delle Entrate e due Ministeri Infrastrutture e Giustizia –, per stanare i furbi.

Chi deciderà di metter mano alla riforma, dovrà considerare le esperienze precedenti. Di Maio non è stato il solo a collezionare ignoranza, arroganza e confusione. Di disastri ne ha fatti anche la sinistra e li sta pagando. Chi ha poco se lo tiene caro e non gradisce che gli venga sottratto per gettarlo al vento. Le legislature volano via in fretta, come i voti e i risparmi. Intanto, i veri poveri aumentano e non hanno tempo da sprecare, mettendosi in fila al seggio o al bar.

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