POLITICA. Al via il Governo Conte: Ok M5S - Lega.

SALVINI E DI MAIO PREPARANO LE NOZZE CON I FICHI SECCHI

Sergio Mattarella ce l’ha fatta. L’Italia e l’Europa tirano un sospiro di sollievo. Gli indisciplinati hanno superato l’esame di riparazione. Grazie alla tenacia del custode delle Istituzioni: un Democristiano, professore universitario, giudice costituzionale, più volte ministro; nato nel luglio del 1941, una settimana prima del rastrellamento e della deportazione degli ebrei; il padre, cinque anni dopo, è nell’Assemblea Costituente. Insomma, non proprio l’ultimo dei cretini.

È stato sulla graticola, tra il Conte crash e il Conte trash. Ha rischiato di lasciarci le penne: Luigi Di Maio, capo politico dei grillini, ha evocato l’impeachment. Termine inglese che in italiano indica la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. I quarantenni lo associano alla vivacità della lingua di Monica Lewinsky e alla lunghezza e limpidezza di quella di Francesco Cossiga; i sessantenni, agli aerei di Giovanni Leone, altro Presidente della Repubblica.

La parola è insidiosa. Non tanto per la pronuncia: “impicci (senza leggere la i) ment”, con la variante americana che tende a raddoppiare la “p”; quanto per la scrittura. Tant’è che sono aumentate le ricerche sulla rete di “impingement”: un pessimo inizio per chi si propone di cimentarsi nell’interpretazione dell’articolo 92 della Costituzione e interrogarsi sui limiti delle prerogative del Presidente della Repubblica. Un impiccio ben più grande della messa in stato d’accusa.

Non c’è giardino pubblico, salone di barbiere, casa, circolo ricreativo, parcheggio di tribunale, ufficio comunale, corsia d’ospedale, metropolitana, fila alle poste, da Predoi (Bolzano) a Ispica (Ragusa), che non abbia ospitato un dibattito sul tema. Nonostante da Costantino Mortati (Corigliano Calabro, 27 dicembre 1891 – Roma, 25 ottobre 1985) a Sabino Cassese (Atripalda, 20 ottobre 1935 – ancora vivo e pensante), generazioni di illustri giuristi non ne siano venuti a capo.

È bastato Di Maio, cui ha fatto eco Travaglio, per elevare 60 milioni di italiani incontinenti verbali a esperti conoscitori del diritto costituzionale. Come il topo del mulino, sporco di farina, che si crede mugnaio. Un popolo di geni. Cui, però, bisogna riconoscere qualche attenuante: la fine del campionato di calcio; il calciomercato non ancora iniziato e la mancata partecipazione ai mondiali. Circostanze rilevanti, soprattutto con temperature che hanno toccato i 30 gradi.

Ne siamo usciti indenni, grazie all’intuizione di Mattarella e allo spirito di servizio di Cottarelli. In silenzio: quello responsabile, che inibisce le esternazioni di chi ne ha di cose da dire. Non quello del Conte crash, che nei giorni del primo incarico ha sbattuto il grugno contro l’ostinazione di Salvini. Al Colle lo ricorderanno per la discrezione e la bocca cucita. Il Presidente lo ha accolto, come il primo giorno di scuola. È andata male: il professore non è portato.

Eppure non gli mancano buona volontà e credenziali. È espressione dei cinque stelle. Appare nella cerchia degli amici dell’avvocato Alfonso Bonafede, parlamentare pentastellato nella Firenze di Renzi. Ha la mascella larga, magari anche le spalle ma non la stoffa del capo o il carisma. Anche se ce la mette tutta, tanto che sembra tingersi la chioma come si usa dalle parti di Arcore. La stampa italiana lo osserva curiosa e incredula. Mentre la straniera si interroga, indagando.

Giuseppe Conte è un italiano, con un profilo nazional popolare che ricorda i personaggi delle commedie di Alberto Sordi. Con il mutuo, l’ipoteca e l’Equitalia alle calcagne. Si presenta in taxi e ha la jaguar in garage. Uno che tace di fronte a Mattarella, perché non sa cosa dire; senza alcuna capacità di persuadere due giovani discoli, cui deve la notorietà e una prospettiva: come un anonimo giovane laureato di provincia nell’anticamera di un parlamentare degli anni ottanta.

Garbato, finanche nell’annunciare il proprio fallimento, già anticipato da Salvini. Un Conte del Grillo, con meno risorse e più cuore. E i problemi di ogni padre di famiglia. Che pur di sbarcare il lunario sogna prima con Renzi e poi con Bonafede. Ignorando il vecchio adagio secondo cui se un pero non produce pere è difficile che, assunto a nuova vita nelle sembianze di un santo, possa fare miracoli. Ma si sa: le strade del Signore – soprattutto del Quirinale – sono infinite.

In pochi giorni, è passato dalle luci della sala stampa del Colle, all’anonimato, a Palazzo Chigi. Accompagnato da Salvini e Di Maio. Come Pinocchio tra i due carabinieri. Senza vergogna. Perché, in fondo, non è diverso dagli altri: come tutti, preferisce evitare gli specchi quando l’immagine riflessa potrebbe non essere immacolata. E certamente non lo è se strisci pancia a terra, per evitare di essere impallinato da Salvini. Che sarà pure vice, ma impone il gioco: da destra.

La comitiva renziana ha deciso di non essere della partita. Costringendo Mattarella agli straordinari. E consegnando l’Italia ai duri e puri con tinte “fasciste”. L’ultimo dei Democristiani non poteva accettare il paccotto made in Firenze. Per costituzione, con la minuscola. E alle suggestioni del signore del giglio magico ha preferito l’uomo del popolo, eterodiretto. Rispedendo al mittente il contropacco e attingendo a piene mani alle proprie prerogative. Senza andare oltre. 

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