Politica. L’ESTATE SCABROSA DEI POLITICI, TRA LINGUE ROVENTI E MANINE IRREQUIETE

Il premier Conte non ne può più. Leghisti e grillini sono ai ferri corti. Le elezioni europee incombono. L’asse di governo scricchiola. Emergono differenze e preoccupazioni: ciascuno dei due alleati teme l’altro. Il primo ministro è frastornato. Ha invocato la cabina di regia. Ci ha messo la faccia. Ma l’hanno vista in pochi. Anche tra i cinque stelle. Salvini lo ha relegato in un angolo. Accanto a Bonafede, Grillo e Toninelli. Alcuni non hanno gradito. Ma non possono raccontarlo.

Il leghista ha rubato la scena a tutti. Senza soldi. Con qualche bugia e un manipolo di profughi. Tra un vu’ cumprà inseguito in spiaggia e una nave bloccata in porto. Fa incetta di “mi piace”. Racconta ciò che il popolo vuol ascoltare. Dà soddisfazione e conta di riceverne. I pentastellati temono un’emorragia di voti. Giustizia, Salute, Infrastrutture, Trasporti e il paccotto Di Maio sono campi minati: occorrono soluzioni e risorse; chiacchiere e buoni propositi non bastano.

Il presidente della Repubblica tace e prega. Non può parlare. Gli italiani non capirebbero. Non gli perdonerebbero neppure un “fate presto”. Con grave pregiudizio per la credibilità e la tenuta delle Istituzioni. Tra una preghiera e un silenzio, sussurra a pochi, lontano da sguardi indiscreti. Conte e Di Maio tendono l’orecchio e si adeguano. Salvini no, esagera, senza alcun imbarazzo, scientificamente: sul crollo del ponte Morandi si è tenuto lontano da taccuini e microfoni.

A destra non si muove una foglia. Antonio Tajani risponde ai giornalisti ma non affonda il tiro. Berlusconi sbuffa ma non sbrocca. La Meloni si concede qualche intervista per ricordare a sé e agli altri che Fratelli d’Italia esiste ancora, ma non va oltre. La Casa delle Libertà è avvolta da una coltre di nebbia. Gli inquilini mormorano, bisbigliano, si muovono con cautela, senza far rumore; finanche Dudù non abbaia. Eppure ci sono: pensano, si confrontano, valutano, scelgono.

A sinistra il frastuono compromette l’ascolto. Le voci si accavallano. Come i volti che si contendono la scena per denunciare l’emergenza democratica. Chiacchiere e buoni propositi sono versati a secchiate su chi immagina che sia possibile arginare la deriva fascista. Con un solo risultato: i militanti sopravvissuti sono esausti e fradici, immersi nel fango delle fake news e nelle proprie lacrime. Si augurano il ritorno alla politica, spolverando le foto di Moro e Berlinguer.

Salvini, intanto, ha varcato il Po, l’Arno, il Tevere, il Garigliano, il Sarno e anche il Sele. Tappa su tappa, da Bolzano a Ragusa, accumula chilometri e voti. Agita l’ascia, punta la quercia ma sradica le felci. Passa dallo sforare allo sfiorare in men che non si dica. La stampa, per quel che conta, lo insegue, lo sollecita e acclama. Soprattutto quella che un tempo era nell’orbita di Berlusconi. E poco importa se sposta l’asse della politica estera, virando verso Visegrad.

Il governo Conte reggerà. Per ora, non ci sono alternative. Gli elettori sono stufi del Partito Democratico e di Forza Italia. Per troppi anni hanno percepito il cappio alla gola, mentre intorno si banchettava. O almeno così appariva. Il logoramento dei risparmi ha precipitato nel terrore milioni di italiani, che rivendicano il diritto di scegliere chi più gli aggrada. Anche solo per fare un torto a quanti ritengono responsabili del peggioramento del tenore di vita familiare.

Il Partito Democratico è diviso in tre tronconi isolati. Da una parte, i parlamentari saldati alle poltrone romane, impegnati a puntare l’indice contro il governo; dall’altra, i trombati, i delusi, i militanti votati al martirio: ombre che vagano nel limbo del vorrei, saprei anche come, ma non me lo lasciano fare. Più in là, gli elettori, sempre di meno, tirati per i capelli alle comunali, dove si controlla il voto e c’è da render conto, ma liberi di scegliere alle politiche.

Il renzisconesimo ha celebrato l’io e cancellato il noi dal vocabolario politico, distruggendo la filiera rappresentativa che dalle periferie si articolava fino alle stanze romane, facendosi programmazione condivisa e sintesi delle istanze del territorio. I dirigenti nazionali custodiscono il feretro del Partito Democratico e come vecchie comari, accorse per esprimere il proprio cordoglio ai parenti, si esercitano nella narrazione dei vizi del defunto, tra lacrime e abbracci.

Martina ha la faccia pulita e buona volontà. Come il primo ministro. Entrambi pagano lo scotto di compagni di viaggio irrequieti. Conte, sulla Diciotti, ha ceduto il passo a Salvini. Martina ha subito la sfilata della Boschi. Il candore e la purezza di Maria Elena hanno destato scalpore nel porto di Catania. Quanto le uscite del leghista tra gli amici di Roberto Fico. Il presidente della Camera ha mostrato l’anima di sinistra del movimento. Martina sta cercando quella del PD.

Bersani, due anni fa, denunciò il pericolo della deriva fascista: citò la mucca nel corridoio; non fu ascoltato. Tese la mano al movimento: gli diedero del folle. Intanto, a sinistra, a destra e al centro, al governo e all’opposizione, non c’è uno che dia l’idea di sapere come fare ciò che deve essere fatto. Si vive alla giornata. Con una certezza: l’asse Di Maio Salvini reggerà fino a quando Berlusconi non ne decreterà la fine, relegando il movimento e il Pd all’opposizione. 

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