ANGRI. LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA TRA IL CIVISMO DI INGENUI ASPIRANTI CONSIGLIERI E IL CINISMO DEI RECLUTATORI PREDATORI

 LA SELEZIONE DEL CETO POLITICO, IL PESO DELLE FAMIGLIE E LA RACCOLTA DEL CONSENSO ALLA VIGILIA DELLE COMUNALI. LA PESSIMA GESTIONE DEL CASO MAINARDI E LE DISAVVENTURE DI MILO

Chi ci mette la faccia rischia di rimetterci il grugno: oltre i selfie ci sono le segnaletiche e quando ti esponi non puoi scegliere da chi farti fotografare. Va addirittura peggio a chi giunge a conclusioni affrettate: deve temere anche gli autovelox. Secondo un vecchio adagio non è consigliabile sputare verso l’alto quando si è sotto la traiettoria tracciata dalla saliva: l’esito potrebbe essere imbarazzante. Come partecipare ad un evento pubblico con i pantaloni macchiati.
Le luci della ribalta non sono compatibili con il rosso delle gote e il viola della giugulare. Timidezza e livore non si addicono a chi si espone. Al pari, chi ha paura non può scrivere la storia: un tratto lineare richiede una mano ferma. Magari può condizionare la narrazione ma non determinare gli eventi. Politici e cronisti si ritengono abili nel praticare entrambe. Soprattutto in provincia. Ancor di più in una realtà ancorata a radici contadine dai riflessi cafoneggianti.
Al netto dei limiti di ciascuno, la memoria e la onestà intellettuale fanno la differenza. Anche nelle redazioni e nelle stanze del potere. E tra gli scranni dell’opposizione. Sia nelle tribù primitive sia nelle società evolute. Ovunque si voglia collocare la nostra comunità, non si può andare oltre questi due limiti. Pertanto, è auspicabile non ignorare il passato confidando solo sulla ritenuta capacità di leggere o scrivere il presente, perché in grado di reggere un foglio.
Alla vigilia delle amministrative è opportuno fare il punto su quanto accaduto durante la consiliatura precedente. Sugli avvenimenti e la loro rappresentazione. Prendendo le mosse dai nomi e volti degli assessori e di tutti i consiglieri. Senza lasciarsi ingabbiare dalla percepita propria inadeguatezza nel riconoscere e ricordare quelli che si sono distinti per i silenzi elevati a condivisione interessata di pensieri occulti o per le frasi condivise nel silenzio del pensiero.
Gli ultimi cinque anni hanno messo in ginocchio la politica cittadina. Preparandola ad una esecuzione pubblica. Con un epilogo di sevizie in campagna elettorale. L’anno scorso il consigliere di maggioranza Antonio Mainardi è stato linciato dalla stampa e dalle opposizioni. E la stessa sorte incombe sul candidato sindaco Alberto Milo: con un post pubblicato su facebook ha reso noto di essersi recato in Procura per denunciare un calunniatore che si cela dietro un profilo falso.
Mainardi e Milo pagano lo scotto di avere rapporti di parentela con soggetti noti alle forze dell’ordine: il padre per il primo; un cugino o comunque una persona ritenuta tale dai più, per l’altro. Orbene, quando il confronto politico degenera in scontro personale, la vittima e i carnefici non vanno lontano. Mentre l’una, però, ha una possibilità di riscatto, prossima o remota, gli altri accedono alla cerchia degli indegni, cui è interdetta la permanenza sulla scena politica.
Il caso Mainardi, più delle preoccupazioni di Milo, rivendica una ulteriore riflessione: non certo sulla provenienza delle risorse familiari, note a tutti in una comunità impegnata a contare i peli nel naso di ciascuno; piuttosto, sul comportamento del sindaco e dei consiglieri comunali, che si sono mostrati in ansia sia per la sorte delle istituzioni sia per il paventato discredito che avrebbe potuto investire il paese. Per uscirne indenni, hanno atteso, inermi, il Prefetto.
Mainardi e Milo hanno un consenso elettorale rilevante. Conteso da chi ha bussato alle loro porte per arruolarli. Come quello dei medici di base, dei direttori didattici e dei sindacalisti; tutti inseguiti, con voracità predatoria, dai promotori delle liste, che guardano il candidato ma vedono gli elettori: assistiti, frequentatori dei corsi di preparazione all’esame di abilitazione all’insegnamento, braccianti agricoli, invalidi. Storie e precarietà inconciliabili con un no.
I voti non emanano alcun odore. Quando è necessario averne uno in più dell’avversario, fa comodo non interrogarsi su come siano stati persuasi gli elettori. Se sei un anziano bisognoso di cure, un aspirante insegnante, se hai la necessità di assicurare un pasto ai tuoi familiari e non puoi fare altro che lavorare per cinque euro l’ora o partecipare ad una truffa all’Inps, pensi anche che non ti costi nulla accettare l’indicazione di voto di chi già riconosci come benefattore.
Questo è il campo investigativo da esplorare. E non lo deve fare la magistratura. Ma la politica. Quella con la p maiuscola. Non l’altra, con la minuscola, piccola piccola, che ha auspicato chiarezza sulla permanenza in consiglio comunale di Mainardi o, da quanto è stato raccontato e non smentito, non ha reso pubblica una missiva della Procura. La Politica non insegue le sentenze, crea le condizioni per evitare l’emersione di fenomeni criminali che potrebbero esserne oggetto.
Mainardi e Milo hanno attraversato più di una stagione politica, solcando, da protagonisti, diversi campi. Nonostante la giovane età, si sono distinti per lucidità e lungimiranza, fuori e dentro i movimenti in cui hanno militato. È evidente che non possono sacrificare i propri affetti per impegnarsi ancora. E non si può pretendere che chi gli vuole bene non metta a loro disposizione risorse umane e finanziarie. Però, si può imporre il silenzio a chi parla ma non sa cosa dice.
Esprimersi responsabilmente, senza sbiascicare nel tentativo goffo di mostrarsi diverso dall’uguale, significa impegnarsi ad allestire liste e coalizioni in grado di proporsi come modelli alternativi di sviluppo di una comunità e un territorio, nel rispetto dei partecipanti e degli elettori. È già successo: i partiti selezionavano i candidati. Ora, li vanno a pregare fin dentro casa, per colmare vuoti o attrezzarsi nel modo ritenuto migliore per sé ma non sempre per il paese.
Con l’elezione diretta del sindaco e la preferenza unica si è scatenata la corsa ai grandi elettori. E qualcuno è inciampato. Prima di Ferraioli, sindaci dai trascorsi amministrativi e politici ben più illustri, hanno perso il sonno, per le rogne dei consiglieri che garantivano la sopravvivenza della maggioranza consiliare. Lo hanno fatto in silenzio, con discrezione condivisa, senza schivare gli schizzi di fango: allora, alleati e avversari non saltavano nella melma putrida.
In quegli anni, non ci fu alcuno scandalo: nessuno si mostrò stupito; non ci furono lettere, aperte o chiuse nei cassetti. Se le cose si fossero messe male, il consiglio comunale sicuramente avrebbe agito per il meglio, scongiurando l’onta della pubblicità e della compromissione della credibilità di un’istituzione vissuta e percepita come sacra e da conservare immacolata. C’era maggiore rispetto. Anche quando, pur per screzi e ripicche, alcuni sindaci sono stati defenestrati.
Mainardi e Milo non meritano la gogna. Magari un rimbrotto. L’adesione del primo alla Lega di Salvini ha consentito alla stampa nazionale di accendere i riflettori su Angri. Di nuovo. Come per i falli di vetro di Giovanni D’Apice, anni prima. Forse, era il caso di esporsi meno. E tutelare il buon nome del paese. Del resto, i consensi ottenuti sono compatibili con le sue capacità. Immaginare che siano riconducibili al genitore, significa mortificare più il padre che il figlio.
Milo, poi, a dirla tutta, più che non gradire l’accostamento, dà l’impressione di volerlo esibire. Non perché ne faccia mostra sul palco in campagna elettorale, come la foto di un padre politico nobile. Ma per le denunce alla Procura, all’indomani dei commenti apparsi sui social, in cui lo si cita. In questa consiliatura, se ne contano almeno due: una all’inizio, nel 2015, contro il professore Mimmo Palumbo; l’altra, di pochi giorni fa, contro un sedicente Giovanni D’Antonio.
È come se i carabinieri e la magistratura fossero diventati apostoli, incaricati di cristallizzare e veicolare un messaggio “Urbi et Orbi”, di cui si può fare a meno, visto che l’argomento e l’eventuale relazione non sembrano particolarmente interessanti: tant’è che si sono registrati solo due commenti allusivi in cinque anni. Tanto sgradevoli e insulsi che, se non fossero stati citati dal diffamato, li avrebbero letti pochissime persone e ancor meno si sarebbero interrogate.
Siamo un paese strano. Accendiamo i ceri a don Enrico e fotografiamo Sant’Alfonso. Distribuiamo buoni pasto ma chiudiamo le porte alla Caritas, invece di consegnarle una mensa. Ci preoccupiamo se ci ricordano i trascorsi dei nostri cari ma pretendiamo chiarezza sulle ricchezze dei parenti degli altri: perché potrebbero consentire a qualcuno di superarci in una competizione. Parliamo con il padre per candidare il figlio. Ma in pubblico lo indichiamo come il marito della madre.
L’usura è una pratica diffusa in città. È noto. Lo era ancor di più negli anni novanta. Un investimento in cui hanno creduto gran parte degli imprenditori e dei professionisti angresi: commercianti, dentisti, ingegneri, farmacisti sognavano di moltiplicare i propri profitti. Come molti operai delle cotoniere. Nessuno si è scandalizzato. Gli inquirenti non ci sono ancora arrivati; mentre la politica è, immobile e tremante, ai nastri di partenza, senza fiato, pensieri e parole.

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