LE DOMANDE DEGLI ELETTORI, GRANDI E PICCOLI, NELLA CACCIA AL VOTO PER LE COMUNALI: «QUANTO CI GUADAGNIAMO? COSA MI DARESTI?»


Gli elettori cui viene chiesto il voto alle amministrative hanno la risposta pronta: «Cosa mi daresti»? È un effetto della preferenza unica e dell’elezione diretta del sindaco. È tra i meno nobili. Vuoi una cosa da me; che mi dai in cambio? Se devo preferirti a un altro, voglio farlo per un motivo preciso: un investimento. Il non detto: sei venuto a casa mia perché devo farti un favore, altrimenti non ti saresti scomodato; visto che ciascuno ha bisogno dell’altro, parliamone.

Un santino per una cambiale. Tra uno «sta tranquillo, usciranno in quella sezione, puoi verificare» e un «non ti preoccupare, fai quel che devi, poi ci penso io», le promesse incrociate coprono il confine tra democrazia e prostituzione. Un voto può risultare determinante. L’ansia da genitore di figli considerati incapaci impone il sacrificio in cabina. Durante la consiliatura, appena la coalizione scricchiola, abbracci solidali accolgono mani tese, mendicanti tra gli scranni.

Imprenditori e faccendieri attendono all’uscio. L’occasione è ghiotta: l’interlocutore è vulnerabile e pronto a calarsi le braghe. Non esistono richieste irricevibili o proposte indecenti. L’eletto può. Per sé, i suoi e gli amici degli amici. Il come si vedrà. L’importante è che ci arrivi. E si renda indispensabile. Ci sono famiglie che si organizzano proponendo o sostenendo candidati. Gli improvvisati non son da meno: un parente in consiglio allontana vincoli e transaminasi.

Il fenomeno si manifesta con le elezioni. Di qualunque tipo. Anche per la scelta degli amministratori di condominio. Dappertutto. Non c’è comunità che possa dirsi immune. Accade ovunque si voti. A destra e sinistra, su e giù, isole comprese. Tutto il mondo è paese. In Romania, ad esempio, ai candidati si chiede «ce mi ai da»? Pari, pari, la traduzione di «cosa mi daresti»? Dove “ce mi” sta per “cosa me”? E nessuno si scandalizza, eccetto la Direzione Nazionale Anticorruzione.

Comunque la dicano, ce mi o cosa a me, l’obolo va lasciato. Per non andar via a mani vuote. Sempre che non si abbia il coraggio di mandare tutti al diavolo, comportandosi da persone perbene e mettendo una croce sulla possibilità di approdare dove si desidera, invece che sulla scheda elettorale. Il ce mi o cosa a me può contenere di tutto: come la borsa di Mary Poppins. Lo si scopre dopo: quando un’emergenza bussa, con vigore, alla porta e la cambiale è presentata all’incasso.

La tutela di interessi cari è garantita in diversi modi. Si va dalla segnalazione per saltare la fila allo sportello, alla sollecitazione a completare quanto prima l’esame di una pratica. L’interpretazione del ruolo di rappresentante del popolo, disponibile all’ascolto, offre varie possibilità di soddisfazione dei bisogni. Il catalogo prevede consulenze, assunzioni in enti controllati, poltrone in consigli di amministrazione: il da farsi non manca, a differenza degli adeguati.

L’esigenza di colui cui si chiede una preferenza può coincidere o essere prossima a quella di chi si propone. In questo caso, si va oltre il “cosa mi daresti”. Si passa a «quanto ci guadagniamo»? In rumeno: «ce câștigăm»? A rimetterci è sempre qualcun altro. Contaminando il lessico, quello da castigare: nelle assemblee rappresentative, come i consigli comunali, è chi, non comprendendo e non controllando i processi decisionali, non partecipa alla divisione. Fuori, i cittadini.

Il castigo e il guadagno sono celebrati come congiunzioni elettorali: mettono insieme domanda e offerta, ai margini dei comizi, sullo stile delle trattive notturne in periferia all’ombra dei falò di pneumatici. Sebbene siano utili a riempire i portafogli e rappresentino fedelmente la qualità sia dei candidati sia dei chiamati alle urne, risultano letali per la democrazia, travolgendo pure il rapporto di fiducia, purtroppo spesso opaco, tra Istituzioni e comunità amministrata.

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