1860 – 2022, DA GARIBALDI A PUTIN. STORIA SEMISERIA DELLE INGERENZE BRITANNICHE NEGLI AFFARI ALTRUI “TRAMITE AMICIZIA”.

«Se gli inglesi non si fossero schierati con Garibaldi, a Napoli ci sarebbe ancora il re». «L’intervento gli è costato caro: Maradona li ha fatti piangere. Loro ci hanno messo lo zampino e lui la mano». La geopolitica, da Gaeta in giù, si riassume in poche battute. Meno di quelle usate da Lucio Caracciolo e Dario Fabbri. Condivise da tutti: con buona pace delle liti tra Alessandro Orsini e Nathalie Tocci. Non per pigrizia, superficialità o revisionismo: per amor di giustizia.

Comunque andò a Quarto, oltremanica ci presero gusto e gli americani li assecondarono. «Il Portogallo, la Spagna, l’Italia e la Grecia si svilupperanno sotto la protezione dell’Inghilterra verso una nuova civiltà moderna che le tirerà fuori dal loro precipizio storico». Così Roosevelt rappresentò a Stalin il futuro del vecchio continente. Era il 20 febbraio 1943. Il 15 febbraio, i russi avevano liberato l’ucraina Charkiv dalle truppe di Hitler: la Kharkiv bombardata nel 2022.

Inglesi e americani si sono occupati a lungo delle sorti di Roma. Come certe suocere che rovinano la giornata per interposta persona: non si fanno sentire e vedere ma sai che ciò che ascolti e osservi è opera loro. I complottisti ritengono che abbiano segnato tutti gli anni Settanta, quelli di piombo per intenderci, spingendosi, secondo alcuni, fino a tangentopoli e oltre. Se fosse vero, le code ai seggi elettorali e le maratone di Mentana sarebbero state uno spreco di tempo.

Per quanto non gradissero particolari politiche della corona borbonica, non c’è traccia di richieste di aiuto indirizzate, dai sudditi di Francesco II, a Garibaldi e alle altre 999 camicie rosse. Non fu espressa alcuna preferenza per i Savoia: nessun referendum o consultazione popolare. Senza portarla per le lunghe, c’erano un invasore (l’eroe dei due mondi, per conto dei sabaudi) e uno stato occupato armi in pugno (il Regno delle Due Sicilie, più di un terzo della penisola).

All’incudine non interessa il nome del fabbro, si preoccupa del martello. «Nel regno difeso solo dalle sirene», per dirla con Eugenio Bennato, in men che non si dica, passarono da una corona all’altra e scoprirono un altro fisco. Non che il popolo avesse preso fischi per fiaschi. Quando aveva dovuto scegliere tra i propri monarchi e gli stranieri, tra i reali e i liberali, si era schierato con i Borboni. Non era propenso ai cambiamenti, non rincorreva le mode. Badava al sodo.

I piemontesi erano alla canna del gas, per le ingenti spese militari. Tra l’altro, nel 1855 si erano persuasi dell’utilità della partecipazione alla guerra in Crimea, su invito e al fianco degli inglesi, contro i russi. Già allora. Avevano due alternative: fare l’Italia o fallire. Scelsero la prima e si salvarono. Passando da Odessa alla questione meridionale. Magari l’idea gli venne alla notizia che la città ucraina era stata fondata da José De Ribas, spagnolo nato a Napoli.

La questione meridionale incrocia di nuovo Odessa alla fine del 1800, quando Eduardo Di Capua, al seguito di un’orchestra sul golfo del Mar Nero, musicò un testo di Giovanni Capurro, consegnando alla storia della canzone la celebre ‘O sole mio, inno dei napoletani nel mondo. Tutt’altro rispetto all’ucraina Stefania, vincitrice dell’Euro Song Contest 2022; che a dirla tutta, non regge il confronto neanche con Il tema del soldato eterno e degli aironi, del professore Vecchioni.

Se i napoletani si fecero una ragione della sostituzione dei regnanti, senza menare troppo il can per l’aia, a Odessa e dintorni, dal febbraio 2022, non si capacitano dell’accaduto e non sanno più cosa augurarsi; come i cugini che vivono ad est, al confine con la Russia. Bloccati nelle terre di mezzo, contese da Putin e Zelensky, sono sotto una pioggia di bombe dell’una e l’altra parte in campo. Non sanno da chi fuggono e chi cercare. Peggio di Gaetano in “Ricomincio da tre”.

Francesco II e Zelensky hanno poco in comune, oltre l’aver subito l’occupazione dei rispettivi stati per aspettative disattese. Il Borbone era timido, preferiva le terme alla palestra. Il presidente ucraino fa sfoggio dei bicipiti, ovunque, dalla televisione alle riviste patinate. Putin e Garibaldi, invece, oltre la determinazione e l’invasione, condividono la complessità dei rapporti intrattenuti dai politici europei con entrambi, caratterizzata da insolenza e sottomissione.

Sia Garibaldi che Putin, in particolari aree dei paesi occupati, sono stati considerati liberatori. Ma è durato poco. Non è che tutti fossero contenti di Francesco II e Zelensky. La guerra è guerra: tra morti, saccheggi, cannonate e fame, qualcuno si è ricreduto. Più per la percezione di torti subiti che per amore della precedente condizione. Entrambi, poi, sono state vittime del fuoco amico: Garibaldi si beccò una pallottola italiana, Putin è stato rinnegato da mezza Europa.

Gli inglesi, intanto, hanno sedotto e abbandonato il vecchio continente. Non prima di aver seminato armi ovunque, da Marsala a Kiev. Alla loro volontà si inchinò anche Mussolini. Il Duce si convinse di averla fatta franca e cadde vittima dell’ambiguità britannica. Correva l’anno 1935. Aveva da poco attaccato l’Etiopia. Gli stati membri della Società delle Nazioni condannarono l’aggressione e sancirono l’embargo su armi e munizioni. Da Londra si spingeva anche per il petrolio.

Nel settembre 1938, durante la Conferenza di Monaco, Mussolini si sparò la posa con Hitler: «Se la Lega delle Nazioni avesse seguito il consiglio di Eden – premier londinese – ed esteso al petrolio le sanzioni contro l’Italia, nello spazio di otto giorni avrei dovuto battere in ritirata in Abissinia». Ad onor del vero, le sanzioni non vennero applicate e furono revocate nel 1936: gli inglesi lo avevano fatto nero, come i pozzi iracheni cui tenevano, imponendogli una rinuncia.

Nel novembre del 1935, Mussolini convocò il professore Umberto Puppini, da lui chiamato alla presidenza dell’AGIP nel gennaio dello stesso anno. Gli comunicò, con i toni e le forme del regime, che «i superiori destini della Patria impongono di sacrificare i nostri interessi petroliferi in Iraq». Il petrolio per l’Etiopia. Per evitare che gli inglesi alzassero il tiro con l’embargo. Puppini annuì. Mattei, qualche decennio dopo, invece, si mise di traverso e ci rimise le penne.

In nome del petrolio”, saggio di Benito Li Vigni, ricostruisce disavventure e affari petroliferi italiani in Iraq, da Mussolini a Berlusconi, passando per Mattei. Puppini comprese le ragioni di Mussolini. Gliene aveva parlato il consigliere d’amministrazione dell’AGIP Gelasio Caetani, cinque anni prima. «Il petrolio iracheno è un sogno italiano che non piace agli inglesi e che potrebbe svanire se si presentassero conseguenze di carattere politico e militare incontrollabili».

La profezia di Caetani si era avverata. Aveva visto lungo. Sapeva il fatto suo: era stato ambasciatore a Washington. «Conseguenze di carattere politico e militare incontrollabili», come in Ucraina nel 2022. Terra ricca di risorse, preziose più del petrolio nel 1930. La parola d’ordine: credenza. Quella degli occidentali da riempire e l’altra da allestire per coinvolgere l’opinione pubblica. Ma anche quelle che si svuotano, per finanziare l’eroica impresa: cacciare l’invasore.

Armamenti, confini, petrolio, medio oriente, principio di intervento e stati sull’orlo della bancarotta, giacimenti, concessioni, desistenza e irriverenza: una miscela esplosiva e un innesco collocato per tempo. Come gli ordigni sul gasdotto Nord Stream. Come l’occasione cercata e voluta da colui cui prudono le mani. Come gli aiuti stipati per anni nelle santabarbara di Kiev. Come solo inglesi e americani sanno programmare, giustificare, gestire e risolvere. Tra gli applausi.

Intanto, l’informazione, per inseguire la cronaca, perde di vista la verità, qualunque essa sia; l’industria bellica accumula utili e i cimiteri si dilatano a dismisura, da Kiev a Mosca. Le inchieste hanno ceduto il passo ai dispacci e la realtà si nasconde, con gli ucraini, nelle cantine dei palazzi, in attesa che qualcuno la recuperi, con il vigore e il temperamento cantati da Flo: «Fosse capace ‘e te vení a cercare fino a ‘nfunn ‘o mar addò ‘o scandaglio nun po’ arrivare».

«Sarei capace di venirti a cercare fino in fondo al mare, dove lo scandaglio non può arrivare»: una immagine evocativa che dovrebbe ossessionare diplomatici e politici, fino al ritrovamento e all’affermazione delle ragioni della conciliazione. Perché non esiste una guerra giusta, un’invasione tollerabile, un intervento pacificatore armato a sostegno di uno dei due schieramenti. E perché l’Europa non può aspettare un’altra mano di Dio, per prendersi la rivincita sugli inglesi.

 

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