POLITICA. Nella notte della Repubblica, tra la stella Di Maio e il sole dell’avvenire

«I vecchi non ci sono più e i giovani non ci sono ancora»: parole di Vattimo, attualissime. Come quelle di De Mita: «L’informazione è legata alla notizia del giorno, che per un verso sembra efficace e per l’altro cancella la memoria». Nella notte della Repubblica, le lucciole grilline dispensano illusioni e incredulità, non luce e calore; insidie e ombre incombono. Il sentiero della politica, infangato, reso impraticabile dai partiti liquidi, è l’unica alternativa al baratro.

Non ci si può fermare: uno sguardo al cielo e l’altro al passo da compiere, tra le nebbie delle ideologie evaporate. Tutti a naso in su: alcuni per recuperare le coordinate, altri per elaborare oroscopi. Con il Capo dello Stato raccolto in preghiera, per scongiurare il default. Enzo Biagi sosteneva che la messa in latino aveva una maggiore capacità di persuasione, anche se era meno comprensibile; in italiano rischia di essere banale. Come il linguaggio politico contemporaneo.

Il futuro possibile si costruisce con sacrificio e comprensione; soprattutto, con la comprensione delle ragioni del sacrificio. Con il sacrificio della ragione non si va da nessuna parte. E al nulla conducono le notizie che non si elevano da narrazione a Storia. Negli anni della Politica, tra gli spettatori delle tribune elettorali, regnavano il silenzio e le riflessioni, mentre in piazza sventolavano bandiere rosse, nere e scudocrociate; e nelle sezioni volavano gli stracci.

Chi c’è non è ancora, chi c’era non è più. I grillini sono il primo partito; il centrodestra, a tinte salviniane, la prima coalizione: dalle loro scelte dipende la formazione della prossima maggioranza. Nel buio brilla Di Maio. Milioni di votanti hanno creduto in lui: lusingato, ricambia. La sinistra e il partito democratico si sono liquefatti. Berlusconi ha recuperato ma non è riuscito a superare Salvini. Renzi, dopo la clamorosa sconfitta, sceglie i banchi dell’opposizione.

Di Maio si propone per palazzo Chigi: «Non si può fare un governo senza di noi. Se lo facessero sarebbe un insulto alla democrazia e ai cittadini». Parla come il vicino di casa, il compagno di banco, l’amico del calcetto. Con lo stile del Testimone di Geova. Così ha fatto breccia nel cuore della sinistra. Così ha attratto chi diffidava del politichese. Così ha convinto delusi, arrabbiati, impauriti e sognatori. Cancellando gli altri. È fermo al bivio. La strada lo interroga.

È in bilico tra approssimazione e irritualità; tra sorrisi e strette di mano; tra condivisione percepita e acclamazione sollecitata. Mina l’assetto istituzionale proponendo una repubblica presidenziale. Annuncia un’era nuova. Riscrive il vocabolario politico: l’alleanza lascia il posto all’accordo di governo; proclamato a realizzato, auspicato a possibile. Impone un nuovo corso, sostituendo la proposta politica con la comunicazione. Si prepara a occupare le stanze del potere.

A sinistra si rimuovono le macerie, alla ricerca di sopravvissuti. Il proporzionale ha garantito l’incolumità di nomi illustri: Bersani (LeU). Ma ha anche aperto le porte del Parlamento ad alcuni figli d’arte: da Piero De Luca (Pd), di Vincenzo, governatore della Campania, a Federico Conte (LeU), di Carmelo (Psi), già viceré di Craxi in Campania. Massimo D’Alema (LeU), invece, non ce l’ha fatta. Stessa sorte per Giuseppe Fioroni (Pd), Cesare Damiano (Pd) e Pippo Civati (LeU).

La campagna elettorale è iniziata nel 2013. Ha segnato tutta la legislatura precedente, passando dall’impossibilità di Bersani di allestire una maggioranza, al varo del Governo Renzi. Cinque anni sopra le righe, per confermare o recuperare consensi, con episodi inquietanti. Per tutti, il fallito attentato nei pressi di palazzo Chigi mentre al Quirinale giuravano Letta e i suoi ministri; sei colpi di pistola e una confessione raccapricciante: «volevo sparare solo ai politici».

Lo stivale si è tinto di giallo, soprattutto dalla Toscana in giù. Una chiazza verde si estende dalle Alpi alla pianura padana, con macchie che interessano il centro. Il rosso democratico ha resistito in Toscana, Emilia e parte dell’Umbria; qualche schizzo ha raggiunto il meridione. L’Italia è divisa in due, cromaticamente e geograficamente: il nord con Salvini; il centro sud con Di Maio. Si sono imposte due nuove coordinate politiche: non più destra e sinistra ma nord e sud.

Di Maio ha svuotato il bacino elettorale del centro sinistra. Ritiene le ideologie superate. Ma c’è chi lo vede come naturale successore della tradizione riformista. Si è schierato con gli operai dell’Ilva, i movimenti che si oppongono al gasdotto di Melendugno e al Tav in Val di Susa. Ha fatto sua la battaglia agli sprechi, promettendo sforbiciate a spese ritenute intollerabili. Propone l’elenco dei versamenti volontari dei parlamentari grillini al fondo per il microcredito.

Nei giorni dei partiti liquidi, promette partecipazione e condivisione delle scelte. L’elettore si eleva, ancora, a militante: si sente protagonista. La piattaforma Rousseau è la casa comune dove esprimersi, programmare e controllare: l’alternativa alle vecchie sezioni per milioni di esclusi, costretti a eseguire gli ordini impartiti dai dirigenti romani. Va oltre il territorio, entra in casa, recuperando un rapporto diretto con il singolo: è la nuova filiera rappresentativa.

Recita il rosario dei problemi, quelli che ciascuno riconosce immediatamente per averci convissuto. Allestisce soluzioni, di cui è difficile contestare la bontà. Rivela le emergenze e la necessità di agire tempestivamente: si impone delle scadenze; denuncia il consociativismo che ha bloccato la crescita della nazione e impoverito gli italiani. Si scaglia contro le banche e i politici che le hanno sostenute garantendole con fondi pubblici. Brandisce il reddito di cittadinanza.

Eugenio Scalfari gli attribuisce un’intelligenza politica notevole e l’ambizione di porsi a capo di un grande partito che rappresenti la sinistra moderna. Le urne non mentono: gli hanno consegnato lo scrigno rosso delle recriminazioni e del futuro possibile. C’è uno spartito su cui scrivere una melodia che attualizzi la tradizione. Il partito democratico non c’è riuscito; nella notte della Repubblica, si è spento nelle stanze del potere, lasciando fuori il Sol dell’avvenire.  

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