POLITICA. Silvio Berlusconi, dalle stelline di Arcore alle stelle grilline.

Silvio c’è. Ancora. Lo testimonia la Presidente del Senato. Una donna, la prima. Come Eva. Con un peccato: remoto. Non originale, meno grave: la difesa del Capo. Il 14 settembre 2011, votò la costituzione in giudizio del Senato nel conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Milano. Come dire: Ruby è la nipote di Mubarak. Una macchia indelebile. Eppure siede sulla seconda poltrona dello Stato. Silvio l’ha premiata, proponendola a Salvini che ha assicurato i voti.

Silvio c’è. E non è un male. Lo testimonia l’allestimento della coalizione del centrodestra. E il risultato conseguito: prima – aggettivo. Come prima, avverbio: quando scese in campo. Con Bossi, Fini e Casini. Prima, di nuovo aggettivo, un quarto di secolo dopo, senza di loro. Ma con Salvini e Meloni. E i casini di Arcore: quelli con l’iniziale minuscola. E con un altro contratto, firmato sulla stessa scrivania. E il nome sulla scheda elettorale. Nonostante l’incandidabilità.

Matteo c’è. Sono due: distribuiti a destra e sinistra. Uno di cognome fa Salvini. Ha smesso le magliette. Indossa camicie e cravatte. Malgrado gli stiano strette. È nato con Bossi. E se ne è ricordato: garantendogli l’elezione. È riconoscente. Anche a Silvio. Alle cui casse ha attinto per finanziare la campagna elettorale. Ha recitato sui candidati alla presidenza del Senato: Paolo Romani e Anna Maria Bernini. Attende l’investitura. Ma rischia di essere travolto dagli eventi.

C’è l’altro Matteo, a sinistra: Renzi. Toscano. Come Dante e Machiavelli. Ma anche Pieraccioni, Ceccherini e Paci. C’è. Nelle parole di Maurizio Martina, il reggente del Partito Democratico. C’è. Nei gruppi parlamentari. Nelle sale del Nazareno. Negli incubi dei militanti annegati nel partito liquido. C’è, con i renziani. Per ora. Perché prima erano bersaniani. E sul dopo è incauto scommettere. C’è, nel PD. Fino a quando le azioni dell’uno non risulteranno letali per l’altro.

C’è, poi, Roberto Fico. Relegato a Montecitorio, sullo scranno più alto. Lontano dal Movimento e dalla piazza. E da Luigi Di Maio e Vincenzo Spadafora. Ci sono loro due. Alla Camera, con le valigie pronte per Palazzo Chigi. Sempre che trovino le chiavi del portone o citofonino a chi può aprirlo. I numeri potrebbero non bastare. Senza chiavi e un pizzico di cortesia non si entra. La pulsantiera offre molti nomi. E voti. Bisogna saper scegliere, «non arrivarci per contrarietà».

C’è, infine, l’Italia. Tra la pistola tedesca e le rovine greche, stretta tra i muri europei e la marea africana. Ancora in ginocchio. Ma pronta a rialzarsi. Sempre che venga fuori una maggioranza di governo. O, almeno, anche solo un governo non ostile alla maggioranza. Di certo, il centrodestra non ha i numeri. Come i pentastellati. I democratici sono nel mezzo, isolati e lacerati: non possono guardare a destra e non sono graditi da chi punta l’indice contro i berlusconiani.

Commenti

  1. Mah? Il compagno standard non è molto sofisticato e può credere la qualunque sciocchezza. Con l’anello al naso, come da sua storia consolidata, ci è nato. Quel parlamento di CD votò che Berlusconi telefonasse in Questura nelle sue funzioni di primo ministro essendo effettivamente primo ministro ed essendosi qualificato come tale (tutto registrato), non potendo (ovviamente) non solo conoscere le parentele di tale Ruby ma neppure che azzo fosse e che faccia avesse. Inutile ricordare st’altro penoso capitolo del romanzo farsesco Bocassini la Rossa - Berlusconi, ancora una volta finito con piena assoluzione perché il reato non esisteva se non nel cranio della suddetta and his company. La cosa più divertente di questa farsa sono stati i 7 anni comminati direttamente dalla Rossa tramutati in assoluzione con formula pienissima nei successivi gradi di giudizio. Niente di serio…

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